Goldoni rimatore (1955)

Recensione a Carlo Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, vol. XIII (Milano, Mondadori, 1955), «La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 3-4, luglio-dicembre 1955, pp. 504-507, poi in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

Goldoni rimatore

In questo penultimo volume della edizione mondadoriana curata dal benemerito studioso del Goldoni, Giuseppe Ortolani[1], sono raccolti i «componimenti poetici» del grande commediografo, dalle rime giovanili a diversi canti sparsi nelle commedie o nei drammi giocosi, a quei componimenti che lo stesso Goldoni ordinò e pubblicò nei due tomi di Componimenti diversi (Pasquali 1764 e ’68) e muní di una lettera «agli associati» quanto mai significativa per precisare i limiti di questa produzione minore nell’acuta coscienza che ne ebbe l’autore.

Egli infatti chiama questi componimenti «barzellette in verso, dette abusivamente Poesie, poiché la Divina Poesia va trattata diversamente, ed io l’amo e la venero troppo per abusarmi del nome suo e de’ soavi suoi attributi».

Né si tratta qui di falsa modestia e di convenzionale giustificazione, ché queste prime parole son ribadite e spiegate per tutta la lettera con l’onesta chiarezza dell’uomo e del letterato, cosí lontano da certe pose fra modeste e presuntuose di tanti versificatori del suo tempo, cosí lealmente disposto a proporre al lettore la natura occasionale di quei componimenti («cose sono elleno tutte create per l’occasione, fatte per obbedienza e dovere»), privi di pretese poetiche e di profonda urgenza intima. «Voi non troverete un solo fra’ miei componimenti creato con la pretenzione, per furore poetico, per voglia di verseggiare, per imporre, per comparire, per soddisfare la Musa».

E neppure si faceva illusioni sul valore di nobilitazione delle sue «barzellette» («per carità non le chiamate Poesie!») mediante la revisione e le correzioni cui le aveva sottoposte per pubblicarle, ché «il male è nel legno» e quelle resteranno sempre «le barzellette che erano, scritte col mio solito stile, e con quel sale che può produrre la mia fontana».

Ma in queste dichiarazioni, che insieme testimoniano l’adesione del Goldoni alla graduazione del suo tempo fra commedia e forme alte della poesia e insieme il suo sostanziale disinteresse per queste ultime e la coscienza che il suo stile era naturalmente comico (e in quella direzione l’umiltà si cambiava in certezza della propria vocazione e della propria originalità), ben si può cogliere uno degli elementi positivi e interessanti per la valutazione di questa produzione minore. In questa, il Goldoni non accettava il pericoloso paragone con le forme encomiastiche solenni, classicheggianti, «serie» che la tematica di occasione (monacazioni, nozze, cerimonie religiose) poteva suggerirgli, ma sceglieva consapevolmente – e non senza polemica – la via tipica della sua sostanziale ispirazione antiaccademica, discorsiva e comica, i modi essenziali del suo linguaggio volto al quotidiano e al piacevole e utilizzava le stesse occasioni ad uno svolgimento sorridente e bonario anche se non privo di una sua speciale serietà, ispirata ai suoi ideali di fiducia e di giocondità ottimistica, alla sua simpatia affettuosa ed attiva per la vita e per gli uomini.

Perciò questi componimenti, poco impegnativi, occasionali, han pure un loro interesse per lo studioso del Goldoni non solo come documenti di un costume e di un’epoca riveduti nella speciale dimensione della mentalità goldoniana, ma come documenti appunto di tale mentalità e come sostanziale espressione minore dell’animo e della poetica goldoniana ben diversamente da quanto avverrebbe se il Goldoni avesse negato se stesso e la sua natura in un’opera puramente convenzionale, accettando i modi solenni e le forme letterarie di un linguaggio e di una intonazione non sue. Come avviene in parte in quelle prime poesie giovanili piú impersonali e in cui pure l’orecchio attento può cogliere, nelle stesse difficoltà espressive e nel disagio dell’apprendista, anche la ripugnanza istintiva del poeta ad aderire a modi letterari troppo eterogenei rispetto al suo temperamento umano e poetico.

E si osservi dunque come, nei limiti del soggetto d’occasione e del tema «commissionato», anche questi componimenti possano servire allo studio del Goldoni per verificare la tipica disposizione dell’animo goldoniano di fronte alla vita, l’inclinazione naturale dei suoi sentimenti e dei suoi essenziali e semplici ma sicuri ideali, in una notevole conferma e integrazione delle offerte che in tal senso piú direttamente ci vengono dai Mémoires e dalle Lettere.

Conferma e integrazione, ho detto, ché certo in molti di questi componimenti di soggetto religioso non mancano elementi che pur van calcolati a limitare la tentazione di certe immagini troppo apertamente risolute di un Goldoni prerivoluzionario e combattivo affermatore di uno spregiudicato abbandono delle credenze tradizionali o deciso innovatore sociale. E sarebbe errato negare ogni sincerità a certi atteggiamenti che, pur rinforzati dalla disposizione del tema e dalla prudenza del poeta che «serve le case dei grandi», confortano ad assicurare la permanenza del Goldoni in un cerchio di «illuminata» adesione alla fede tradizionale e alle sue forme cultuali fondamentali, che del resto egli sentiva come elemento di una società, di una città, nella loro concreta completezza e come coefficiente di moralità e di sanità tradizionale, nonché come piacevoli occasioni di festa, di cerimonia pittoresca e popolare.

Ma già in tal modo si chiarisce come questi stessi sentimenti di «pietà» tradizionale (su cui il curatore della presente edizione sembra insistere con eccessivo compiacimento), mentre si debbono ascrivere in parte a quel margine di prudente e non vile conformismo che nel Goldoni si rafforza nella sua istintiva adesione ai modi della realtà in cui vive (e certo nei Mémoires parigini egli si mostrerà tanto piú libero e ardito nello stesso incoraggiamento di una società tanto piú spregiudicata e libera di quella italiana e veneziana – sicché gli stessi suoi atteggiamenti, pur nella loro base sostanziale e sincera, van graduati anche in uno sviluppo della sua mentalità in contatto con precisi ambienti e condizioni culturali –), ben si inquadrano in una visione della vita fiduciosa ottimistica e ragionevole, moderatamente e «onestamente» edonistica. E vanno interpretati, fuori di ogni profonda tensione spirituale, in una versione molto goldoniana di una «pietà» illuminata, ridotta ai termini essenziali di un cristianesimo umanitario e civile, risolto in pratiche pie fondamentali (e si noti il riferimento esplicito all’insegnamento del «prevosto» Muratori, al suo trattato Della regolata divozione[2]), di valore piú morale che veramente religioso, pronto a reagire ad ogni eccesso «bigotto», ad ogni forma di coartazione della sincerità e della libertà personale (la monacazione deve essere libera e il Goldoni ama comunque rappresentare libere le monacazioni per cui compone le sue poesie), alla corruzione ammantata dalla devozione (e quante volte la sua ironia si fa piú sdegnosa contro simili immagini: «sentir la Messa con l’amante al fianco!»[3]), e soprattutto alla ipocrisia significativamente colpita in molte di queste poesie «religiose».

E se piú tardi nei Mémoires il Goldoni apertamente esprimerà il suo illuministico giudizio sulla «superstizione» e sull’interessato zelo degli ecclesiastici (si pensi alla narrazione della visita a Loreto, a quella del S. Anello di Perugia e alla deliziosa scenetta del suo viaggio in barca con il frate che dimette ogni interesse per il giovane convertito appena gli ha carpito l’elemosina) e se in documenti privati (la lettera al Cornet da Roma) mostrerà il suo dispiacere di non poter portar sulla scena, a causa della censura, il ricco materiale comico rappresentato dagli ecclesiastici, già in questi componimenti, inevitabilmente piú «conformistici», non manca la punta contro gli «eccessi» religiosi ed è d’altra parte assente qualsiasi profondo segno di misticismo appassionato[4] e discorde dal «buon senso» ragionevole, dalla fiducia mondana che escludono ansie metafisiche, slanci mistici e il senso di problemi oltremondani.

Anzi, a confermare anche in questa direzione, in questa tematica il cui svolgimento occupa la maggior parte del volume, la fondamentale mentalità goldoniana e a recuperare proprio in tal senso una modesta vena poetica piú congeniale e tutt’altro che sgradevole (anche se spesso guastata dalla prolissità e dalla diluizione discorsiva), si deve notare come la stessa vita religiosa delle giovani monache venga rappresentata nel suo aspetto lieto di tranquilla fruizione di modesti e consistenti piaceri: l’agio delle conversazioni femminili, i poco faticosi lavori che insaporiscono le ore del chiostro, le gradevoli refezioni non turbate da preoccupazioni e da passioni disordinate e inquiete. Lo stesso stato conventuale viene cosí a consolarsi della modesta poesia degli «onesti piaceri» della vita, della letizia di una attività piacevole e socievole (il solitario è figura aberrante per il Goldoni e sfugge del tutto al suo mondo cosí intensamente intessuto di rapporti), confortati da abitudini liete e familiari:

Che bel diletto nella santa cella

levarsi la mattina innanzi al sole,

salutare il suo Dio, sposa ed ancella,

con sante preci ed umili parole;

e quando il coro a salmeggiar appella,

cantar quell’Ora che cantar si vuole,

udir la messa con divozione,

poscia andar diviato a colazione!

Bevere in compagnia la cioccolata,

or nella propria cella, or dell’amica,

poi l’obbedienza che l’è destinata

far prontamente e non temer fatica.

Chi della sagrestia va incaricata,

chi nell’infermeria l’obbligo implica:

chi alla porta, chi al pan, chi alle aziende,

chi a comandar, chi a provvedere intende[5].

Tutto punta, in questi componimenti per monache, a ricreare un’atmosfera gioiosa e tranquilla, un’aura di lieto fervore da cui il poeta può ben bandire «la malinconia», tante sono le immagini piacevoli di cui egli orna la vita conventuale, creando insieme, con mano divertita e briosa, delle vere e proprie stampe del ’700, delle scene gustose, anche se poco approfondite, di un costume rilevato nei suoi tratti piú congeniali alla simpatia goldoniana per una condizione lieta e ottimistica, per gli interni abitati e caldi di vita socievole.

E si leggano in proposito, nel capitolo veneziano al padre Zanetti, la descrizione dei piaceri delle stagioni in un monastero agiato e ben organizzato[6] o, nel capitolo per Suor M. Cecilia Milesi, la briosa scenetta della cucina delle monache dipinta preziosamente in un uovo pasquale, in cui il gusto goldoniano delle cose e del movimento in un interno piacevole e caldo si espande con maggior efficacia, come avviene in molte di queste poesie quando la commissione, l’occasione divengono pretesto di una piú libera espressione di motivi goldoniani:

I peltri s’ha depento in tre fazzae,

e i sechi, e le fersore, e le graele,

e le converse al fogo destinae.

E de novizze, muneghe e putele

una trupa, che porta a cusinar

oseleti, brisiole e polastrele.

Tute quante in t’un fià vol ordenar

chi el lesso, el rosto, chi el stufà o el ragú,

e chi fa le converse desputar.

Chi porta de le legne e buta su,

chi parechia a le inferme el paninbrodo,

e chi beve, e chi sua, che no pol piú[7].

Naturalmente in questi componimenti, anche nei loro momenti migliori, i motivi goldoniani non hanno il loro valore piú intensamente poetico e si sbiadiscono in un esercizio nettamente marginale rispetto alle commedie, ché, malgrado tutto, le necessità dell’occasione e del tema si fan pur sentire. Ma, ripeto, caratteristica e non priva d’efficacia è la risoluzione dell’impegno piú compunto di tanta produzione monacale settecentesca in simili forme sorridenti e gustose, ai confini fra una simpatia affettuosa e condiscendente e l’ombra di una bonaria ironia.

Cosí come si può osservare nell’altra tematica di occasione (componimenti per nozze di personaggi illustri veneziani) – sul doppio binario di una considerazione dell’anima e degli atteggiamenti pratici del Goldoni e di un’attenzione ai modi espressivi in cui un soggetto viene tradotto – ché, mentre l’ossequio ai «grandi» non conduce certo alla conclusione di un piatto servilismo del Goldoni nei confronti della classe dominante (tanto criticamente osservata nelle Commedie), e, nei limiti dei rapporti di commissione artigiana (che dunque qui Goldoni accetta accanto al piú valido rapporto autore-pubblico), serve piuttosto a confermare la misura goldoniana (non solo opportunistica, ma intima), la moderazione delle sue esigenze riformatrici entro concrete situazioni politico-sociali, tale ossequio si risolve in un singolare rapporto di affabilità, nella presentazione di «grandi» onesti ed umani, e in tal modo riportati su di un piano di comune umanità, di sostanziale uguaglianza con gli altri uomini, lumeggiati piú che nella loro grandezza nei loro affetti domestici, nella loro lieta e onesta vitalità.

E in tal modo, come l’ossequio perde il carattere servile, e si diversifica dalle esaltazioni cortigiane di tanta poesia settecentesca d’occasione, cosí lo stesso tema nuziale è volto singolarmente a pretesto di scenette e dialoghi sorridenti o comunque rifiuta una impostazione di solennità e di stile alto, encomiastico, e quell’uso della mitologia e dell’inerente linguaggio classicheggiante che il Goldoni apertamente dichiara del tutto incompatibile con il suo «stile» e con la sua vocazione per forme semplici e naturali, discorsive e dialogabili.

Se una volta intona «Pronuba ormai discendi / bella dea di Amatunta...», lo fa solo per interrompersi subito e dichiarare: «la via ch’io presi è al mio costume ignota»[8].

Ed ecco come questi componimenti (in cui possiamo insieme ritrovare elementi sicuri del suo solido e limitato mondo interiore: la chiara fedeltà agl’ideali civili del buon senso e della misura, il sicuro pacifismo[9], l’equilibrio fra libertà nuova e solidità tradizionale con l’inerente satira delle «mode», il suo fiducioso ottimismo, l’amore non tanto per i paesaggi liberi quanto per quelli organizzati dagli uomini e per gli uomini – come la gustosa descrizione dei giardini di Parigi[10] –, il valore dato alla letizia, alla «gioconditade, vera felicità dell’uomo onesto») ci servono a confermare concretamente la sostanziale originalità e consapevolezza del Goldoni, che non si fece mai tentare da forme estranee alle sue possibilità, e – sia pure con una certa vicinanza a forme poetico-discorsive piú sciolte, non certo assenti nella letteratura del suo tempo – affermò anche in questa esercitazione minore i suoi ideali di linguaggio semplice e medio, la sua poetica sostanzialmente antiaccademica, lontana dall’uso delle particolari mitologie arcadiche pastorale e classicistica.

Notevoli in tal senso sono anche le esplicite ironiche dichiarazioni del Goldoni sia contro i residui barocchi, sia contro le tendenze erudite e classicistiche («Qua no ghe xe metafore o conceti / el stil tuti l’intende e tuti el sa / né bisogno ghe xe de Calepini»[11]), sia contro la Crusca bersagliata spessissimo per le sue pretese dell’esclusività linguistica fiorentina («Per mieter palme all’apollinea riva / deesi la crusca adoperare ovunque»[12]), sia contro il «fare grande» pindarico-chiabreresco [13], di fronte al quale e alle varie forme arcadiche petrarchistiche e bernesche[14] il Goldoni afferma sempre piú chiaramente la sua volontà di naturalezza e semplicità, la fedeltà del suo stile al «vero»: stile che egli sente vicino, piú che a quello di qualunque letterato, allo stile del Longhi[15].

Ed è cosí che la stessa umiltà con cui il Goldoni distingue il suo stile, «solito sia che parli in prosa o in rima»[16], dai «voli poetici sonori»[17], dalla poesia «alta», viene in realtà a cambiarsi nell’affermazione della sua poetica del naturale («l’Apollo mio della natura è il lume»[18]), e in una certa giustificazione del valore limitato, ma programmaticamente indicativo di questa stessa produzione minore vòlta, nei limiti di occasione notata, all’espressione del «vero» nelle sue forme piú umili e quotidiane.

Le affermazioni ricordate corrispondono al periodo della maturità goldoniana, il periodo veneziano dal ’48 al ’62, al quale anche naturalmente appartengono i componimenti piú interessanti e vivaci di questo volume, specie appunto quelli nella lingua piú vera del Goldoni, il dialetto veneziano, e in forme aperte di dialogo e di scena; come La conzateste, Il burchiello, La gondola, Il burchiello di Padova (per non dire dei versi inseriti in commedie come il Campiello o in melodrammi giocosi da quelle opere inseparabili) o come poi, nel periodo parigino, quella Piccola Venezia in cui al gusto di una discorsività animata di voci diverse si aggiunge la nota della nostalgia per Venezia che anche qui, come nei Mémoires o in Chi la fa l’aspetti, non supera mai una misura sentimentale molto sobria e recupera il desiderio del passato in forme di una sua piú nitida e intensa rappresentazione.

Diversa invece è la condizione della prima parte del volume (le rime giovanili dal 1723 al ’48) in cui il carattere dilettantesco ed eclettico del letterato novizio e poco sicuro delle sue letture e delle sue esperienze è particolarmente evidente specie nei componimenti del periodo pavese: poveri imparaticci fra echi di ultimo barocco e riprese da modelli arcadici poco precisi con curiosi impasti di linguaggio comune e grandioso o volgarmente spettacolare («coeterno cerchio» e «orbefatto»[19]), fra petrarchismo e concettismo, rafforzato dalla vicinanza al linguaggio dell’oratoria sacra ripresa nei noiosi «quaresimali in capitolo».

Tuttavia, come ho già osservato, anche quella produzione interessa se non altro per certi improvvisi movimenti comici o di linguaggio comico che spezzano il tessuto pesante e retorico o per quegli esiti di involontaria comicità grottesca nei tentativi di grandiosità orrida[20] che piú tardi il Goldoni maturo sembrerà riprendere ironicamente nella parodia del sonetto «bizzarro» del Poeta fanatico. Ed interessa proprio per documentare il progressivo abbandono di forme inadatte e di pure imitazioni letterarie (del resto piuttosto rozze e non prive di qualche menda grammaticale) quando il Goldoni matura il frutto delle stesse esperienze di esigenze arcadiche (esercitate di nuovo e piú intensamente nel periodo pisano) nella sua personale poetica del naturale e del «vero» a cui, come abbiamo visto, – e naturalmente nelle particolari forme di questa produzione minore – indirizza fuori delle Commedie anche l’esercizio di linguaggio e di caratterizzazione di questi «componimenti poetici».


1 C. Goldoni, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, vol. XIII, Milano, Mondadori, 1955.

2 C. Goldoni, op. cit., p. 433.

3 Op. cit., p. 227.

4 Si ricordi il passo dei Mémoires (cap. XVIII) in cui una precoce crisi mistica è giudicata dal vecchio scrittore come prodotta da «vapori» ipocondriaci.

5 Op. cit., p. 350.

6 Op. cit., pp. 776-781.

7 Op. cit., pp. 631-632.

8 Op. cit., p. 735.

9 Op. cit., p. 584.

10 Op. cit., p. 895.

11 Op. cit., p. 196.

12 Op. cit., pp. 478-479, 482.

13 Op. cit., p. 550: «Ma guai a me se colla cetra allato / Pindaro seguitando e il buon Chiabrera / uscir volessi dal mio stile usato».

14 Op. cit., p. 632: «Perché el Petrarca non imito o el Dante, / perché seguito el stil che piase a mi, / e no quello del Berni o del Morgante».

15 Op. cit., p. 187: «Longhi, tu che la mia Musa sorella / chiami del tuo pennel che cerca il vero».

16 Op. cit., p. 250: «So che i carmi sonori il mondo stima / e l’umil verso è riputato vile / ma il facile ed il ver fu ognor mio scopo».

17 Op. cit., p. 762: «E se el mio stil no piaserà ai poeti / che no vol che se daga poesia / senza imagini nove e bei conceti, / poco m’importa. Dar se podaria / che piasesse a qualcun sto far sincero / piú assae dei sforzi de la fantasia, / e che dopo aver leto un libro intiero / pien de voli poetici sonori, / piasa a qualcun semplicemente el vero».

18 Op. cit., p. 472.

19 Op. cit., p. 28 e p. 12.

20 Si vedano le figurazioni infernali in op. cit., p. 95 e p. 104.